Illustrazione di S3KENO
Biografia - Fumettista, grafico, giornalista musicale, organizzatore di eventi: Stefano “S3Keno” Piccoli, dal cult magazine Katzyvari e Il Massacratore (icona del fumetto indipendente italiano degli anni ’90), fino a Skorpio (Eura Editoriale), al collettivo Factory e a BIZ Hip Hop Magazine (Magic Press). Tra i suoi ultimi libri a fumetti Kuore nella notte (Tunué, 2014), Guerrilla Radio - Vittorio Arrigoni, la possibile utopia (Round Robin, 2015), La Storia dell’Orso Bruno (su testi di Militant A di Assalti Frontali per Round Robin, 2017) e Stagioni - Quattro storie (e mezza) per Emergency (Tunué, 2018) insieme a Simona Binni, Daniele “Gud” Bonomo e Paolo “Ottokin” Campana.
Dal 2016 cura e realizza per conto della Regione Lazio i cataloghi annuali Le eccellenze creative del fumetto e dell’illustrazione di Roma e Lazio (giunti al terzo volume).
Da quattro anni è anche docente del corso di graphic journalism presso la Scuola Romana dei Fumetti.
E’ founder e direttore di ARF «Festival di storie, segni e disegni» al Mattatoio Testaccio) di Roma, che organizza insieme a Gud, Ottokin, Mauro Uzzeo e Fabrizio Verrocchi.
Estratti dai commenti dei detenuti - edizione 2019 del progetto I Classici dentro e fuori il Bassone
Breve trama - clicca per accedere alla trama del libro.
“Non ho mai avuto la possibilità né la capacità di potere andare in Africa, ma dai tanti documentari visti negli anni, di cui sono molto appassionato, ho potuto imparare molto o almeno credo, dagli usi e costumi caratteristici del loro paese, che poi costumi mi sembra un'esagerazione dato che in molti luoghi e villaggi, ci sono delle tribù dove le donne per tradizione o per povertà non hanno neanche vestiti e girano con i loro mezzi costumi che nei villaggi più poveri servono a coprire a malapena le parti intime inferiori.
(…) Tutto sommato, credo che l'Africa sia un continente meraviglioso, tra deserti, montagne, foreste, così enorme che forse non basterebbe viverci un'intera vita per scoprirlo tutto in ogni suo particolare, in ogni suo villaggio, città un po' più moderne e fra tribù dove l'uomo bianco non è mai stato visto forse, e se pure fosse il contrario, credo che ci vedrebbero come una persona o come una razza malvagia visto che nel loro mondo il ricordo associato alla persona bianca, secondo me, viene associato più a catastrofi, saccheggi, e sfruttamenti. (…) Io vedo l'Africa come un mondo a sé, fantastico e sfruttato per poi essere abbandonato quando non serve più.”
(Cit. A.V. 2019)
“I colori, io cerco di immedesimarmi nello scrittore quei colori tanto vivi quanto cupi. I silenzi, sì, i silenzi delle persone che parlano col sorriso, spettacolare a volte le parole non servono a nulla di fronte ai pregiudizi, quei pregiudizi che son dovuti dall'ignoranza del non conoscere le realtà e vi dico quanto bello è vivere senza quella frenesia isterica di non guardare ogni momento l'orologio, la pazienza di aspettare. Ragazzi, non so voi ma sono loro ad essere avanti, non noi che anzi viaggiamo come degli zombi. I valori oramai scemati dell'interloquire con i nostri simili che fine hanno fatto? Kapuscinski dice il tempo annienta l'uomo. Non so se lo annienta, una cosa è certa: ne si è schiavi.
Adesso mi è più chiaro del perché in Africa muoiono tantissime persone e quel che è più triste tanti bambini, perché non si ha la possibilità di curarsi, sapete io mi immedesimo nelle loro sofferenze forse perché so cosa vuol dire soffrire e quando conosci la vera sofferenza si è più predisposti a capire.”
(cit G.D.S. 2019)
“Quando ho cominciato a leggere questo libro mi sono venuti in mente (per chi se li ricorda) i Campionati Mondiali di calcio disputati qualche anno fa in Africa. Ricordavo un mondo “raccontato” tramite uno schermo, un mondo pieno di colori e vita, un mondo pieno di gioia e allegria per di più accompagnato dalla canzone“Time for Africa”. Ma più affondavo nella lettura del libro, più mi facevo delle domande che, sembra un nonsenso dirlo, avevano dentro le risposte: Chi erano quelle persone sugli spalti, che ballavano e cantavano per tutto il tempo? Erano forse le stesse persone che cucinavano ancora con un sistema elementare che risale al neolitico? Erano forse i parenti lontani di quelli che sono stati sradicati da più di 300 anni di commercio di schiavi? Avevano qualcosa in comune con quelli che cercano di sopravvivere alla malaria, pur essendo denutriti, esauriti e affamati? Erano gli stessi che sono entrati nel XXI secolo senza speranza e senza sogni? Chi erano quei bambini così belli, così sorridenti, così gioiosi? Erano forse quei bambini arruolati dai “Signori della Guerra” che ammazzano in massa altri bambini, perché in questo continente le guerre sono praticamente guerre tra bambini? Non lo so, però tutte queste domande hanno generato una domanda ancora più inquietante: che fine avranno fatto, quando tutto questo “Circo Mediatico” era finito? Sicuramente la maggior parte sono rimasti lì, in quel continente che noi chiamiamo Africa, catapultati con brutalità dal “paradiso fittizio” nell'' ”inferno reale” che regna implacabile in quel mondo. Un mondo dove l'uomo striscia nel fango alla ricerca di un chicco di grano e una lacrima di acqua per sopravvivere fino al giorno dopo.
Non lo so cosa o quanto mi ricorderò di questo libro, ma sicuramente le poche, tante cose che mi sono rimaste impresse nella mente, mi aiuteranno a dire, a spiegare ai miei figli, ai nipoti e agli amici di non essere malcontenti perché non hanno l'ultimo tipo di smartphone, una macchina più potente, una casa più grande, perché in Africa il bambino riceve come regalo una vacca, di cui è responsabile, con la quale gioca e trascorre i momenti liberi. Gli dirò che i bambini in Africa non chiedono né pane, né frutta, e nemmeno soldi. Chiedono semplicemente una penna per poter scrivere o disegnare chi lo sa che cosa. Forse scrivere un sogno che hanno paura di sognarlo, forse una speranza che hanno paura di dirla a voce o forse per disegnare lo spirito dell'Africa, cioè: l'elefante. Gli potrò dire che tutte le mattine in Africa gli uomini non hanno il problema di come vestirsi, cosa mangiare di buono o come divertirsi; in Africa tutte le mattine l'uomo guarda verso il sole, verso l'infinito con la speranza che forse il cielo avrà compassione, si commuoverà per il loro destino e “piangerà”, dandole così da bere le amare lacrime della vita.
Leggete il libro, perché ahimé questo ci insegna come si può vivere insieme sotto lo stesso cielo senza riuscire a capirsi del tutto, ma trovare un linguaggio comune. Un linguaggio che parla della cultura, della spiritualità, dei bisogni veri e non della “rivoluzione 4.0” perché in Africa la rivoluzione sembra non essere neanche nella fase embrionale.”
(cit M.D. 2019)
“Mi ricordo che ho sentito parlare degli africani da bambino tramite i film. Ma non i film sull'Africa ma sugli afro-americani, schiavi nei campi di cotone in America e Brasile. Poi c'erano i film sui pirati e sempre c'era un nero muscoloso e un altro che serviva. Mi dispiaceva un poco ma senza approfondire. Qualche lacrima mi scappava sugli schiavi, quello sì. Anzi, in Albania, negli anni 80 c'era un film di servi con una schiava di nome Isaura. La gente si chiudeva in casa, sulle strade non si vedeva un'anima viva, e tutti senza distinzione a piangere, chi davanti agli altri, chi di nascosto al buio. “Spegni la luce” tuonava un vocione da uomo e tutti liberi di lacrimare. Poi, proprio in quegli anni, si intravedevano alcuni uomini neri in Albania e mi venne detto che studiavano nelle nostre università. Molti di loro diventarono i nuovi rivoluzionari marxisti e subito dopo la nuova faccia dittatoriale. Poi nel '91 sono arrivato in Italia, al sud si vedevano poco ma a Ravenna, nell'ufficio stranieri, facevo la fila con loro. (…) E vedo cose che non mi piacciono: al ragazzo africano davanti a me, non dicono nulla se non ha la marca da bollo o certi documenti. A me, che vengo dall'Albania, mi rimandano indietro e io devo perdere altri giorni di lavoro per tornare in questo ufficio. Così mi arrabbio. Non mi piace la gente che si piange addosso, che usa la propria storia, la propria disgrazia per una piccola concessione non mi sta simpatica. Bianca o nera che fosse. Ma loro quando si sentono in difficoltà ti urlano in faccia accusandoti di razzismo. Vaffanculo! Non è così, merita le cose se no vai a farti fottere! Non riesco a comprendere quel loro atteggiamento sottomesso. Poi leggo Kapuscinski e comincio a capire. Anche la loro arroganza esplosiva quando non ottengono il loro scopo.
Leggo l'ultima riga e sono così contento di aver letto questo romanzo – enciclopedia, ma soprattutto di aver conosciuto la penna di Kapuscinski. La sua Africa è la mia Africa ormai, niente e nessuno mi può far ricredere. L'Africa di Kapuscinski non è un continente, non è fatta di nazioni, le lingue sono solo un labirinto di codici ma che parlano lo stesso linguaggio, tutto così diverso, tutto così uguale. E' un mondo a sé, non un continente, come lui dice. Non capisci dove finisce il deserto e dove inizia l'uomo. La pace e il conflitto nella definizione occidentale perdono il loro senso. Il mondo animale, la natura, l'uomo, sembra che non producono eppure continuano ad esistere da migliaia di anni cambiando insieme per non cambiare. Africa. Un cosmo di paradossi.
“I bambini raccontati da Kapuscinski non crescono mai, sono sempre uguali, alti, di età, di gesti. Nell'Africa dove i bambini muoiono di fame, malati, dalla guerra, i suoi sembrano eterni, come l'Africa, incapace di crescere. Invece gli adulti sembra che sono nati già così, adulti. Loro sembrano intrappolati nel tempo vagano per l'Africa. I bambini incapaci di crescere, gli adulti impossibilitati dei ricordi. Infatti l'Africa non ha una storia, sembra di vivere nel presente e negli spiriti. Un mondo metafisico, tanto che mi viene il dubbio che esista per davvero.
Durante il lungo viaggio intrapreso con Kapuscinski gli feci una domanda: ma la teoria dell'evoluzione darwiniana comprende anche l'Africa o va per conto proprio? Lui non mi degnò di una risposta e fino alla fine non concluse nessuna storia, tanto non se lo sente compito suo.”
“Lui violentemente ti svuota di ogni immagine esotica e romantica dell'Africa, mollando il suo lettore in mezzo al deserto, senza la minima pietà. Lui non cerca di conciliare l'occidentale con l'africano, nemmeno ti incita a chiedere un perdono che non meritiamo. Ci lascia attoniti di fronte ad uno spettacolo macabro che inizia con noi facendoci vomitare addosso il nostro disgusto per noi stessi. Vai all'inferno, Kapuscinski!”
(cit. A.X. 2019)
“Diciamo che ho sempre avuto certi pregiudizi su un viaggio in Africa, magari per un pensiero di pericolo o addirittura di non ritorno, però tenendo presente che la natura è la cosa che mi ha sempre affascinato di quel luogo, magari guardo sempre troppo i due lati della medaglia e se c'è troppo nel lato oscuro, evito di trovarmi in certe situazioni. Kapuscinski invece è riuscito a spronarmi in un lontano futuro, di un possibile viaggio in Africa, vorrei puntualizzare che nella sua storia si capisce che di pericoli ce ne sono, e anche in abbondanza come l'ho sempre immaginato, tra governatori avidi di denaro, gruppi paramilitari, conflitti armati, genocidi e schiavitù, racconta di un Continente instabile tra la vita e la morte. Leggendo tra le sue righe ne potrebbe anche valere la pena di rischiare, per poter apprezzare gli altri mille volti dell'Africa, imparando tante cose dalle altre culture, visitando luoghi paradisiaci e animali che solo lì puoi trovare in piena libertà.
Una cosa tra le tante che mi ha colpito, è il fattore tempo, cosa che ho notato molto da quando sono uscito dal carcere, trovandomi personalmente da situazione a dover riempire il mio tempo al meglio stando rinchiuso, a poterne usufruire al massimo una volta uscito, apprezzandone il corso. Mentre quasi tutte le persone che vedo in giro da quando sono "libero", riesco a scorgere che nella maggior parte c'è un accanimento e un inseguire il tempo, quasi al punto di ammalarsi, mentre invece in quei luoghi lo vivono in base a ciò che fa l'uomo senza schemi, orologi o programmi dettagliati.
Dopo aver letto il libro, sono arrivato a un concetto di pensiero verso Kapuscinski di totale rispetto, verso quello che ha vissuto in quel luogo e la forza che ha avuto anche quando ha preso la malaria, non ho voluto approfondire troppo sui vari concetti come colpi di stato, prese di potere, guerre o differenze di colore della pelle, perché non riesco a tollerarle e mi sembrano inutili, lo so per tanti sono un sognatore per il fatto di sperare che tutto questo possa prima o poi finire, ma la realtà sarà così quando saremo estinti per colpa di guerre e supremazia tra NOI STESSI. Grazie a tutti quelli che leggeranno o ascolteranno il mio commento.”
(cit. L.C. 2019)